Intervista a Mons. Pennisi: “Solidarietà e speranza anche nel cammino faticoso”

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Siamo giunti in Sicilia alla terza settimana di emergenza Coronavirus. La fatica è grande per tutti. C’è una frase ripetuta da tutti che sostiene questa fatica: “Andrà tutto bene”. Abbiamo chiesto a monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, come la giudica dal suo punto di vista e come va sostenuta la speranza che tutto “Andrà tutto bene”. Eccellenza, Lei ha dichiarato: “Dobbiamo aiutare il Paese a superare l’inverno psicologico e in questa primavera ad avere un sussulto di speranza”. Che significa più concretamente per lei e per i cristiani? Che innanzitutto dobbiamo fare i conti come tutti con questo modo con cui la realtà ci si presenta. Non abbiamo possibilità di scelta. Dobbiamo confrontarci col Coronavirus perché né a noi né a nessun altro è risparmiata la sofferenza, la paura, l’incertezza sul futuro, la morte di persone care o di conoscenti. Vorrei sommessamente ricordare che l’espressione “tutto andrà bene” viene da una mistica inglese, Giuliana di Norwich, vissuta dal 1342 al 1430, alla quale, negli anni in cui in Europa imperversava la peste nera, il Signore affidò queste parole: “ogni cosa sarà per il bene”. In questo così difficile contesto dobbiamo saper offrire una lettura di ciò che accade alla luce della speranza cristiana simboleggiata da un’ancora, a cui “ancorare” le speranze umane. Cos’è dunque per Lei oggi la speranza. Su cosa poggia? Nella tensione drammatica fra l’aspirazione del desiderio dell’uomo a superare tutti i limiti e la fragilità della sua condizione di creatura, di cui si fa esperienza in questi giorni, l’uomo intuisce che il compimento della speranza supera il suo potere. Avere speranza significa avere una coraggiosa fiducia nelle possibilità della natura umana, nell’attesa del loro pieno compimento, basato su una promessa divina, aperta alla dimensione dell’eternità. E che differenza c’è rispetto all’ottimismo? L’ottimismo è un atteggiamento acritico in base al quale si pensa che alla fine tutto andrà bene. Il cardinale gesuita Jean Danielou ha affermato che annullando la tragicità del male, l’ottimismo diventa il nemico peggiore della speranza. Mantenendo gli uomini nella illusione di potersi liberare da sé stessi, esso li distoglie in realtà dall’unica via della salvezza. Ecco perché è stupido non aver preso atto e non prendere atto innanzitutto della drammaticità della situazione. Papa Francesco ha spiegato bene questa differenza. In che occasione? Qualche anno fa, il 29 ottobre del 2013 nell’omelia di una Messa alla Casa Santa Marta, ha detto: “La speranza non è ottimismo, ma un’ardente aspettativa protesa verso la rivelazione del Figlio di Dio”. E poi ha aggiunto: “La speranza non è un ottimismo, non è quella capacità di guardare le cose con buon animo e andare avanti. No, quello è ottimismo, non è speranza. Né la speranza è un atteggiamento positivo davanti alle cose. Quelle persone luminose, positive… Ma questo è buono, eh! Ma non è la speranza. Non è facile capire cosa sia la speranza. Si dice che è la più umile delle tre virtù, perché si nasconde nella vita. La fede si vede, si sente, si sa cosa è. La carità si fa, si sa cosa è. Ma cosa è la speranza? Cosa è questo atteggiamento di speranza? Per avvicinarci un po’, possiamo dire in primo che la speranza è un rischio, è una virtù rischiosa, è una virtù, come dice san Paolo ‘di un’ardente aspettativa verso la rivelazione del Figlio di Dio’. Non è un’illusione”. Quindi l’ottimismo che in questo periodo si esprime in tante forme di vitalità, spesso espresse dai balconi, non va bene? Per carità, va bene, soprattutto se ci si mantiene entro il buon gusto e il rispetto degli altri. Ma ai cristiani è chiesto di più e devono saperlo esprimere proprio in questo momento così difficile. Ci viene in soccorso anche Dante che nel XXIV canto del Paradiso, ispirandosi alla Lettere agli Ebrei, afferma: “fede è sustanza di cose sperate/ e argomento de le non parventi” e ancor di più nel XXXIII quando parla della Madonna come “di speranza fontana vivace”. Lei ha parlato prima di un’ancora, a cui “ancorare” le speranze umane. Che vuol dire? Ho tratto questa affermazione dalla stessa omelia del Papa quando, citando l’esperienza dei primi cristiani per spiegare che la speranza non è ottimismo, ha detto che è “un’ancora, a cui “ancorare” le speranze umane. E la nostra vita è proprio camminare verso quest’ancora”. Ed ha spiegato questo in modo molto semplice. Come? Facendosi una domanda e dandosi la risposta. “Mi viene a me la domanda: dove siamo ancorati noi, ognuno di noi? Siamo ancorati proprio là nella riva di quell’oceano tanto lontano o siamo ancorati in una laguna artificiale che abbiamo fatto noi, con le nostre regole, i nostri comportamenti, i nostri orari, i nostri clericalismi, i nostri atteggiamenti ecclesiastici, non ecclesiali, eh? Siamo ancorati lì? Tutto comodo, tutto sicuro, eh? Quella non è speranza. Dove è ancorato il mio cuore, là in questa laguna artificiale, con comportamento ineccepibile davvero…”. Queste parole sembrano scritte oggi per l’oggi che stiamo vivendo, anche se risalgono ad alcuni anni fa. E che giudizio se ne può trarre? Questi giorni così duri e anche drammatici dicono che non è più sufficiente vivere da buoni cristiani, ancorati anche alle certezze che derivano dalla fede. Quante certezze abbiamo perso in un mese? Anche quelle che sembravano intoccabili: la Celebrazione eucaristica e tante pratiche tradizionali di pietà popolare. Eppure è accaduto dimostrando che le certezze cui dobbiamo affidarci sono altre. Chiediamoci qual è la laguna artificiale in cui ci siamo parcheggiati. Però non dobbiamo fermarci solo a questa evidenza. Sotto le pieghe della vita anche ai tempi del Coronavirus c’è tanta grazia, tanta, solidarietà e tanta speranza. Di tutto ciò dobbiamo far tesoro quando spero presto tutto sarà finito. Qualche giorno fa ha anche citato il poeta Charles Péguy. Perché? Péguy paragona le tre virtù teologali a tre sorelle: due adulte e una bambina piccina. La fede è paragonata a una sposa fedele, la carità ad una madre o a una sorella maggiore, la speranza a “una bambina da nulla” che sta nel mezzo. Poi spiega che la speranza “si tira dietro le sue sorelle più grandi”. Vuole dire cioè che è la speranza che trascina la fede e la carità. Ma va oltre e giunge ad affermare che se si ferma la speranza si ferma tutto. E quindi qual è la particolarità della speranza? Il dinamismo della speranza umana, abbandonato a sé stesso, sfocia in varie forme di utopie e di ideologie generando, a seconda dei casi, presunzione o disperazione, tristezza e distrazione, fatalismo o accanimento nel perseguire il proprio progetto. La speranza, che si inserisce nel rapporto fra tempo ed eternità, è una certezza ragionevole di un bene futuro, che implica un cammino faticoso verso una meta sicura. Quindi possiamo concludere che: finché c’è vita c’è speranza? No, semmai è il contrario. E ce lo dice proprio papa Francesco quando in un’udienza del 2017 ha affermato che è la speranza che tiene in piedi la vita, che la protegge, la custodisce e la fa crescere. C’è un famoso detto di Eraclito: “Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato”. Papa Francesco ha detto richiamandosi alla mitologia greca: “Se gli uomini non avessero coltivato la speranza, se non si fossero sorretti a questa virtù̀, non sarebbero mai usciti dalle caverne, e non avrebbero lasciato traccia nella storia del mondo. È quanto di più̀ divino possa esistere nel cuore dell’uomo”. Nonostante il momento drammatico, noi cristiani siamo chiamati a sperare “contro ogni speranza”, come scrive san Paolo ai Romani.


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